Quante volte di fronte alla scelta tra medicinali equivalenti e di “marca” abbiamo optato per i secondi in virtù di una presunta maggiore efficacia?

In realtà il discorso è più complesso e ci mostra come il medicinale equivalente ha la stessa composizione qualitativa e quantitativa dell’originale.

La cosa più difficile è far capire alle persone che scegliere un medicinale equivalente non significa assumere una cura meno efficace, e probabilmente alla base di questo errore c’è stata anche la definizione iniziale di generico, laddove generico sembrava significare “blando”.

Un medicinale è equivalente se attraverso le ricerche sulla bioequivalenza è dimostrato che i profili di concentrazione del sangue rispetto al tempo sono sovrapponibili al medicinale detto di “marca” e per questo motivo efficaci alo stesso modo.

La bioequivalenza inoltre è finalizzata a confrontare la biodiversità dei due medicinali, ovvero la quantità di principio attivo che passa nel sangue dopo la somministrazione e il tempo impiegato.

Qualcuno potrebbe chiedersi, data la stessa valenza medica dei due medicinali, da dove derivi la differenza nel prezzo di vendita.

Perché gli equivalenti hanno un prezzo più basso?

I medicinali equivalenti hanno un prezzo inferiore di almeno il 20% rispetto a quelli di riferimento, poiché venendo meno la protezione brevettuale (dopo circa 10 anni), decadono i diritti di protezione intellettuale che la casa farmaceutica detiene sul principio attivo e ciò consente ad altre aziende di produrre il farmaco, risparmiando i costi per la ricerca e lo sviluppo.

L’immissione in commercio di un medicinale equivalente è vantaggiosa sia per i cittadini, sia per il SSN che può così investire maggiori risorse su medicinali innovativi per patologie rare o croniche.

Una volta che il medicinale è stato autorizzato dalle autorità preposte come l’AIFA, viene inserito in una lista, la quale ne certifica la sicurezza e la l’efficacia.